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Paolo Maria Rocco – Virginia Recensione a cura di MARCO LABBATE «Erano le insegne al neon a riportarlo a casa.
Infilate nella prospettiva della strada, una dietro l’altra, di grandezze,
forme e colori differenti gli mettevano in moto la memoria. Gli dirigevano i
passi. Sui due lati della via i palazzi ne erano incendiati con lo stesso
effetto del caleidoscopio di luminarie alla festa del patrono. Ma non era il
suo paese questo».
Arrivato alla fine del romanzo ho avuto la sensazione che questo incipit mi
avesse seguito dall’inizio. Mi aveva immerso in uno spazio grandioso, dalla
incantevole dilatazione tarkovskjana, con contorni
sfuggenti, indefiniti. All’interno i personaggi si muovevano in un
campo lungo, senza però mai essere annegati dalla vastità debordante. Ne
erano anzi figli, animati da una simile spinta a superare l’angustia di un
confine, verso una possibilità visionaria e immaginifica: «Sospesa in una sensazione indefinita di piacere,
guardava quella spettacolare mutazione dei colori delle piante, le note
pastello del foliage che si moltiplicavano
all’infinito. Poi chiuse gli occhi sopraffatta. Aveva già provato quella
medesima sensazione. Le tornò alla mente il viaggio appena concluso. (…) Rivedeva
il tavolo dello Scriptorium ingombro di libri
aperti, e ricordò di quando, all’imbrunire, il venir meno della luce, che si
scioglie nella nebbia della vaghezza, le concedeva di perdersi in
fantasticherie: in lei, assumevano forma nelle visioni che le erano più care.
In quegli istanti di sogno le ombre che si disegnavano sulle pareti
muovendosi per effetto delle nuvole corse dal vento, le sembravano dar vita,
proprio lì davanti a lei, alle sembianze di Guido d’Arezzo e Pier Damiano: li
sorprendeva (…) affratellati da uno scopo così alto e insondabile». (pp.56-57)
Allo stesso tempo, nella preponderanza vitale degli spazi, avevo veduto
emergere con una forza costante la luce. Non era tuttavia diffusa nella
vastità degli ambienti. Ad essa sembrava spettare il compito di decidere ciò
che doveva essere veduto e cosa doveva restare in ombra. Non appariva nemmeno
come puro elemento, atmosferico o artificiale. Era in continuo dialogo con
l’anima dei personaggi, anch’essa vibrata da accensioni e nascondimenti.
Isolandola mi trovavo di fronte ad un elemento vivo, cangiante, che
dava un motivo alle forme (come per esempio accadeva alle finestre dello Scriptorium, aperte «in quella foggia e in quella
posizione» per permettere alla luce di penetrare «con una intensità
costante e omogenea per tutto il giorno e in tutte le stagioni», p.47).
Seguendo i suoi passaggi lungo lo svolgersi del racconto ne ricavavo una
sorta di pedagogia, che quelle insegne al neon avevano avviato e il cui punto
d’arrivo non era la scoperta della «luce dentro se stessi» (p.69), ma
del «sole sul filo dell’acqua che rifletteva riverberi di schegge colorate»
in cui si intuiscono solo «ombre e movenze» mentre alle spalle la
grande casa con le luci interne accese «sembrava pulsare come un astro».
A questa prima immediata impressione, una lettura più meditata mi ha permesso
di aggiungere altri elementi. Se lo spazio con i suoi chiarori
fantasmagorici, diafani o ombrati che siano, è la prima, folgorante
dimensione con cui sono entrato in relazione, l’altro grande elemento che
attraversa carsicamente il romanzo è la particolare
scansione del tempo. Anch’esso è fluido, fatto di una materia nebulosa,
filtrata da illuminazioni repentine e improvvisi annebbiamenti. E’ il
tempo che appartiene alla memoria dal quale si può trarre solo ciò che appare
in luce, così embricato con la narrazione da imporle un procedere a squarci.
Non ha mai senso chiedersi cosa rimanga nell’ombra e perché. La forza
avvolgente del racconto sta proprio nella fedeltà al meccanismo
dell’evocazione che schiarisce le vicende, solo fino a un certo punto, fino a
dove il ricordo può spingersi. Ciò che rimane fuori, deve rimanere fuori. Le
assenze sono le mancate imprimiture degli eventi sul nastro di una memoria.
Il pittoricismo di questo romanzo che narrativamente
si muove come un ciclo di affreschi, vive anche nella definizione delle
immagini i cui contorni possono essere slavati e i pigmenti, caduti.
Come all’interno di una basilica (o dell’antica sala capitolare i cui
residui di affreschi «indicavano successivi mutamenti della destinazione
d’uso»), il visibile non è dato da una compiutezza integra, ma da
sovrapposizioni di dipinti appartenenti a epoche e mani diverse, che meritano
di essere salvati proprio nella loro frammentarietà, il romanzo appare lo
sforzo di conservazione di una tessitura di memorie. Non c’è infatti solo
quella di Giacomo, il depositario della storia della pianista Virginia,
protagonista del romanzo, non c’è solo quella di Elizabeth la filologa a cui
lui affida i suoi ricordi e che la finzione letteraria trasforma nella
narratrice, non c’è solo quella di una terza voce segreta che compone le
lacune degli altri ricordi e aggiunge elementi, non per dare completezza ma
per sublimare le esistenze concrete in una dimensione fantastica e
visionaria. Ci sono le storie (spezzoni di memorie anch’esse) di Guido
d’Arezzo, di Pier Damiano, di Dante, di Thoreau, di
Dino Campana, cantores evocati, con cui la
protagonista accorda la sua vicenda, riducendo ogni distanza temporale in una
grande visione di insieme.
Vi è però un altro tempo da tenere a mente, che coesiste continuamente con
quello della memoria. E’ il tempo della musica, il tempo «che trafigge il
Tempo, l’uomo, la sua carne». Questo tempo dà il nerbo al plot lungo due
direzioni. Da un lato la creazione narrativa si sviluppa lungo la ricerca di
un antico Breviarium di Guido d’Arezzo, l’inventore
delle notazioni musicali, rivoluzione copernicana della storia della musica
perché segna il passaggio dall’oralità alla sua scrittura. Ma dall’altro il
romanzo progredisce nella continua ricerca di suoni, fino alla
trasformazione di un concerto di piano in «tuoni che rimbombano più in
basso delle cime», fino al suono oltreumano a cui l’artista tende, ovvero
quel «canto così alto da risultare impercettibile all’orecchio umano»
con cui Pier Damiano si svela a Dante.
Dentro questi quattro elementi (vastità, luce, memoria, ricerca del suono
artistico) si compie la storia dei personaggi. Come ha scritto nella
prefazione Antonio Corsaro di manoscritti ritrovati è piena la narrativa
della nostra epoca ed è «il fascino perpetuo della scoperta e
dell’investigazione che fa di questo genere una riserva potenzialmente
inesauribili». Gli ambienti del romanzo potrebbero prestarsi a un’avventura
dai contorni gialli: un conservatorio con la sua segreta, un archivio
vaticano, un monastero, un fumido lago nel boschivo Maine. Ma attraverso
la storia di Virginia, il cui nome simbolico richiama quello della
prima bambina nata da genitori inglesi nel Nuovo Mondo, Virginia Dare,
l’autore non cerca un mistero da risolvere, ma la sofferenza e la forza
prometeica che sta nella ricerca, in ogni ricerca verso quel “plus ultra”
scritto sulle Colonne d’Ercole. Virginia è l’alter ego morale di Guido
d’Arezzo, esponente del grande umanesimo cristiano che rappresentò lo sforzo
dell’uomo di rendere possibile, «già nel mondo terreno, la somiglianza con
Dio». Come Guido ella avverte il compiersi della propria umanità
nel superamento delle possibili predeterminazioni del proprio destino (non
solo quelle dettate dalla famiglia o dalla geografia, ma anche dal
sovrapporsi di un’iconizzazione sociale
riconosciuta). La sua ricerca raccoglie il continuo stravolgimento di una
vita che scopre che i sentimenti troppo forti «non turbano» e che può «scagliarsi
come un dardo nell’intreccio» senza sapere dove fermarsi e quando, «se
non per il venir meno dell’energia che l’ha scoccata». Il conseguimento
dell’oggetto cercato è secondario, potrebbe anche non avvenire. Il racconto
di Paolo Maria Rocco, è un’allegoria eterna di quell’uomo che alla maniera
del Walden di Thoureau
agisce «per vedere se non fossi capace di imparare quanto la vita aveva da
insegnarmi e…per non scoprire in punto di morte che
non ero vissuto». Marco
Labbate, Torino, Febbraio 2015 |
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